Se il videogioco sia o no una forma d’arte, è un dibattito che si è animato spesso durante gli anni. Se dovessi ripercorre la mia esperienza più che ventennale di videogiocatore, potrei confermare che più volte ho sentito tesi a favore o contro questa teoria.

Che li si consideri una forma d’arte oppure no, tuttavia, ci sono videogiochi che hanno fatto la storia. E ci sono storie di videogiochi che sono entrate prepotentemente nella nostra vita, al pari di un libro, un fumetto, un film o una serie televisiva. Ciò che li accomuna è la narrazione, ed è questo il tema che voglio affrontare in questo articolo.

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È evidente, non tutti i videogiochi raccontano una storia. La saga di Mass Effect ha una trama avvincente e un’ambientazione di fantascienza originale, che attinge a piene mani dai classici del genere e che ha contribuito al suo successo. Ma videogiochi come Candy Crush oppure Angry Birds raccontano una storia? Difficile sostenerlo. Per certi versi, ogni aspetto della nostra vita è interessato da qualche forma di narrazione. Anche le partite di calcio raccontano una storia, anche le elezioni politiche: si vive continuamente di narrazioni, anche nelle forme meno consuete.

Alcune tipologie di videogiochi si prestano meglio di altri alla narrativa. Giochi di ruolo, avventure testuali e sparatutto, sono degli esempi di giochi che dipendono fortemente dalla trama, oltre che dal gameplay. Una trama ben curata aiuta l’immedesimazione, le emozioni vissute e la sua memorabilità. Ricordo giochi che mi hanno divertito, ma ricordo soprattutto giochi che mi hanno raccontato delle storie avvincenti!

La narrativa non esaurisce un videogioco, c’è anche il gameplay: altrimenti non ci sarebbe alcun aspetto di interazione con la storia, che rende l’utente un giocatore a differenza di un lettore o di uno spettatore. La narrativa non è sufficiente per la buona riuscita di un videogioco, ma neppure il gameplay lo è: la sapiente miscela dei due elementi è il segreto di un capolavoro. E non basta cambiare media per aggirare il problema: ogni mezzo di espressione ha bisogno di un tipo di narrazione diversa. In un adattamento cinematografico o letterario, la narrazione cambia per far fronte alle necessità e alle potenzialità del nuovo media.

Non possiamo filmare il nostro gameplay di Alien Isolation e credere di aver girato un film. Lo spettatore non può giocare con noi, non riesce a entrare in contatto con la nostra esperienza. E anche l’impianto narrativo ne risulterà irrimediabilmente alterato. Alien Isolation ti trasmette paura se ci giochi, se il tuo alter-ego virtuale si trova in trappola con un alieno in una stazione spaziale, meno se ti limiti a seguire il gameplay di qualcun altro. Non è un film horror, è un videogame horror. Ed è la presenza simultanea di narrazione e gameplay a suscitare il sentimento di orrore.

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Il rapporto tra narrazione e gameplay può portare a felici connubi, in cui entrambi gli aspetti siano ugualmente importanti e contribuiscano a formare una miscela vincente. Ci sono casi, tuttavia, in cui dei videogiochi riescono a ottenere il successo anche se uno dei due elementi è totalmente prevalente sull’altro.

Uno dei casi più eclatanti è quello di Diablo, un prodotto videoludico della Blizzard spiccatamente orientato all’aspetto del gameplay; ma tale caratteristica non gli ha impedito di diventare una pietra miliare del settore, nè di vendere milioni di copie in tutto il mondo. Diablo è, infatti, un gioco tutto incentrato sull’azione. Controlliamo un eroe che uccide orde e orde di nemici, che ottiene ricompense immediate e che prende punti esperienza per salire al livello successivo; in questo modo sviluppa nuove abilità che permettono di uccidere ancora più nemici, o nemici ancora più forti. Diablo è un gioco frenetico, dal ritmo sempre alto e dalla soddisfazione istantanea.

Lo schema si ripete in tutti i capitoli della serie, con continue migliorie. I dungeon (o livelli, o labirinti) si generano in maniera casuale, i mostri spuntano fuori in continuazione per farci prendere punti esperienza, le ricompense sono molteplici tra oggetti magici e monete d’oro. Diablo è un gioco talmente frenetico e gratificante che non ha bisogno neppure di una sofisticata grafica al passo coi tempi o di sublimi impatti estetici per funzionare.

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L’aspetto narrativo della serie di Diablo non è carente, sia chiaro. È semplicemente poco complesso e poco dettagliato, rispetto ad altre saghe fantastiche. Ma è adatto al suo scopo: l’azione di Diablo non può essere interrotta. I dialoghi devono essere brevi ed efficaci, i punti morti devono essere ridotti all’osso. La struttura narrativa di Diablo è assolutamente adatta allo scopo complessivo del videogioco. Troppa narrativa, in questo impianto, sarebbe noiosa. Quella di Diablo è soltanto un’ambientazione fantasy gotica, la cui trama generale riesce a passare le informazioni fondamentali al giocatore anche se decide di saltare ogni dialogo e ogni filmato. Semplice ed efficace.

Che siano incentrati sull’aspetto narrativo o su quello del gameplay, comunque, tutti i videogiochi raccontano una storia. E per questo motivo meritano un trattamento pari a quello degli altri mezzi di espressione artistica: cinema, televisione, letteratura. Tutti meritano la stessa dignità, perché il contenuto narrativo può essere giudicato a prescindere dal media che lo veicola, anche se da esso ne viene ovviamente modificato.

E come un lettore ha il diritto a non finire un libro, uno spettatore può interrompere la visione di un film. Lo stesso diritto vale per i videogiochi: nessuno ci obbliga a terminarli, se la storia o il gameplay non ci piacciono, possiamo anche abbandonarli. Ma c’è un caso particolare: quello in cui non riusciamo a finire il gioco, magari perché il gameplay è troppo difficile, e quindi non riusciamo a sapere come va a finire la storia!

Quando ero piccolo, le mie prime esperienze con il Commodore 64 e i videogiochi per PC con i floppy disk a volte si rivelavano frustranti. Si trattata principalmente di arcade tutti orientati al gameplay e con una storia abbozzata, difficili da terminare. Molti li abbandonavo, non perché non mi piacessero, ma perché la difficoltà era troppo alta.

Adesso non mi succede più. Se abbandono un gioco è sempre perché non mi piace, non perché sia troppo difficile. Forse ho accumulato una certa esperienza da videogiocatore, o forse perché il livello medio di difficoltà dei prodotti videoludici odierni si è abbassato. La difficoltà del gioco, che ne determinata la longevità, non rischia più di impedire al giocatore di scoprire la fine della storia che viene raccontata, ma interessa altri aspetti: ad esempio il multiplayer, oppure i livelli di difficoltà opzionali e gli obiettivi bonus. L’importante è permettere a tutti di arrivare alla fine narrativa del prodotto videoludico, a dimostrazione dell’importanza della storia da raccontare.

Quello che è certo è che adesso è più facile raggiungere il fatidico “The End” al termine della narrazione. Più difficile, semmai, è completare interamente il gameplay. Tuttavia, il vantaggio di un videogioco ben fatto è che una nuova partita significa una nuova storia da raccontare. Quindi, basta avviare un nuovo gioco e cominciare a vivere una nuova storia!



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